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sferirla in più omogeneo clima. Violante era alquanto pensierosa. I pochi amici rimasti in città avevano preso congedo; solo Montalto, riluttante più che mai al doloroso distacco, s’era trattenuto fino a tarda sera in casa Riace.

Stavano tutti e tre nella grande sala da musica, colle finestre aperte; le giardiniere erano vuote e i pianoforti già coperti con la loro tela; un gran mazzo di papaveri finiva d’appassire in un vaso indiano, e molti petali bianchi, violacei, scarlatto, giacevano sul pavimento. I libri, la musica erano stati spediti in villa, la sala aveva preso l’aspetto sconsolato delle ore di partenza e d’addio.

Violante, seduta al pianoforte, appoggiava la testa alla mano, con atto meditabondo, cosa insolita in una natura attiva e vivace come la sua. Ella portava in seno un mazzolino mezzo appassito di gelsomini la cui fragranza penetrante, ad ogni suo movimento, veniva da lontano, soavissima, in volto a Montalto. La marchesa che doveva finire una lettera, s’allontanò per un momento, ed egli andò a mettersi al suo solito posto accanto alla fanciulla. Poi scopersero insieme la tastiera, vi posero le mani e si misero involontariamente a cercare degli accordi consonanti. Montalto aveva toccato il tono di fa diesis minore, il prediletto di entrambi: Violante accennò ad una tenue melodia, egli vi mise il basso è così improvvisarono alcun tempo, come spesso solevano, senza parlarsi e con mirabile unità d’ispirazione.