sottilina, con due stelle per occhi, che chiacchierava volubilmente in piemontese. Francavilla, assai disinvolto e più libero di sè, ronzava senza riguardo intorno ad una bella veneziana, divisa dal marito. Solo Eva Antella s’era ridotta in un angolo, col suo bambino allato, e pareva assai triste. Rose le si avvicinò, un momento, per simpatia, ma poi, disgustato degli altri, salì alle sue stanze, e subito dopo, quasi senz’accorgersi, uscì nel giardino, si ridusse sotto l’albero di catalpa ora sfiorito, ove la prima sera, aveva veduto Manuela Aparia e adagio adagio, inconsapevolmente, rifece la via che conduceva al numero 10. La chiave era ancora nella toppa. Sicuro di trovarsi solo, in quell’ora in cui i domestici cenavano e i forestieri stavano riuniti in sala, egli accese un cerino ed entrò. Una mano pigra o pietosa aveva lasciato appassire, in un bicchiere, alcuni degli ultimi fiori campestri raccolti da Manuela; da un chiodo pendeva un nastrino azzurro che aveva servito a sostenere una fotografia; un vago profumo d’iris era nell’aria, e, quantunque fossero scomparsi tutti gli oggetti graziosi che caratterizzano la presenza di una donna gentile e di buon gusto, la cameretta non era ancor diventata impersonale come le stanze d’albergo. Rose rimase a lungo in quella specie di cella verginale e provo una forte tentazione di farla chiudere, con un pretesto, onde non venissero profanate tante care ricordanze, volle prendere per sè il nastro, e qualche fiore, ma poi rinunziò a tutto, rimprove-