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l’impero sovra sè stessa e quando tento di farglielo comprendere, s’inquieta e s’offende.
— Non vi sarebbe altro rimedio? — chiese Manuela.
— Forse la suggestione, ma io rifuggo da questi mezzi che fanno perdere più che mai all'individuo il possesso di sè. Sono troppo umilianti.
— E lei, Rose, è sempre stato padrone della propria volontà?
— Sempre, no. Da fanciullo ero debole, avevo una suscettibilità morbosa. Dopo un lungo esercizio imparai a vincere, ma chissà quanto mi toccherà di lottare ancora!
Si trovavano in sala, accanto al pianoforte. Donna Cristina e la signora Antella lavoravano in un angolo. Era l’ultimo giorno e il medico aveva permesso alla signorina Aparia di suonare. II segreto della sua passione gli pesava affannosamente sul cuore. Fino a quel tempo era stata in lui una grande verginità di sentimento verso la donna da cui l’avevano molto distolto l’indefessità dei suoi studi e l’ardore delle sue viste umanitarie. Adesso, dopo quella voluta austerità, l’amore gli era sorto nell’animo come una pianta che germoglia in terreno nuovo. E tutto lo travagliava in quell’amore: la sicurezza che Manuela pensasse ad un altro, una certa differenza di posizione sociale, fors’anche lo scrupolo di non sapersi limitare verso i suoi pazienti ad un interessamento affatto oggettivo e scevro di parzialità.