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L’indomani, dovendo recarsi in una villa di faccia allo stabilimento, Gustavo Rose prese una scorciatoia e scese nella valletta che lo separava a nord dalle adiacenti colline. I sentieri erano stretti e ombreggiati da fitti alberi; non penetrava raggio di sole in quella deliziosa frescura; lo stormire delle foglie, il canto svariato degli uccelli, lo scroscio d’un torrente lontano si fondevano in un infinito accordo armonico nella dolce e verde penombra.
Giù nel fondo, l’incolta boscaglia faceva cornice ad una vasca di circa cinquanta metri di circonferenza, ove si spandeva il zampillo quieto e limpido d’una sorgente. Giunto in vista di quell’acqua il medico si fermò. Egli aveva scorto a traverso le frasche Manuela Aparia. La fanciulla toccava quasi l’orlo della vasca e ne fissava intensamente lo specchio. Si ritrasse quindi e dopo aver volto uno sguardo in giro come per assicurarsi della sua solitudine, si mise a cantare. Non era una gran voce ma così intonata e così toccante che il giovane stette immobile ad ascoltarla come se una ninfa boschereccia fosse venuta dal mondo dei sogni a posarsi in quel luogo romito.
La mort vient et me délivre
Des souffrances de mon cœur,
Sans toi je ne puis plus vivre,
Je succombe á ma douleur.
Hélas, hélas.....