Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 290 — |
Una sera, dopo le undici, egli fu chiamato al letto della fanciulla ch’era stata presa da un’acuta nevralgia alle tempia, con sussulti convulsivi. Le sofferenze erano così vive e lo stato dell’inferma così angoscioso che il medico n’ebbe una profonda pietà, e dopo averle somministrato qualche piccolo rimedio, le sedette daccanto e rimase parte della notte colla marchesa, al suo capezzale, sempre aspettando che s’acquietasse.
Manuela non era più irritata e scontrosa, la sua alterezza malinconica, nella prostrazione di forze che succede agli assalti nervosi, aveva dato luogo a un dolce languore di persona ammalata. Ad un tratto ella disse con voce debolissima:
— È la cura che mi fa male, lo sento.
— Difatti, tra i miei numerosi pazienti, è forse l’unica che non ne tragga vantaggio — disse il medico — e benché io sia convinto che ciò dipenda dall’eccessiva ripugnanza con la quale ella l’ha intrapresa, non voglio ostinarmi... Smettiamo un poco, e cerchiamo di aiutarci con l’aria salubre, colla dieta, colle passeggiate; ne conviene, marchesa?
— M’affido a lei... — rispose con tristezza donna Cristina.
— È più contenta? va bene così? — chiese il giovane, allora, con singolare accento, chinandosi sovra i guanciali di Manuela, prendendo amorevolmente fra le sue le fredde manine ch’ella inconscia e indifferente gli abbandonava.