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— Come vuole!... — E senza stendergli la mano, Manuela aperse l’uscio della sua camera e scomparve.
Gustavo Rose rimase alcuni minuti coll’occhio fisso su quell’uscio del numero 10 ch’ella aveva lasciato socchiuso. Egli non provava alcuna irritazione nell’animo, bensì un senso di grave tristezza e domandava a se stesso se nello sciogliere il problema di quella fragile esistenza di donna avrebbe trovato una creatura viziata dalla nascita e da una falsa educazione, oppure un essere eletto, perturbato dal dolore. Una certa penetrazione, insolita nell’uomo, raffinata in lui dall’abitudine di studiare l’umana miseria, e un vago istinto, forse un latente desiderio lo facevano propendere verso quest’ultima ipotesi. Su quel bianco volto di fanciulla, in quegli occhi schivi ove tremolavano fra le lunghe ciglia lagrime irrefrenabili egli aveva scorto la traccia d’un patimento grave, forse segreto e un’immensa pietà, una pietà nuova gli era nata in cuore.
Egli scese a pianterreno, chiamò il primo cameriere e gli disse:
— Sono le dieci. Quando quei signori hanno finito il pezzo che stanno suonando in sala, li avverta dell’ora che fa e cominci a spegnere i lumi. È tempo che vadano a dormire.
— Sarà servito. Buon riposo, signor dottore. Il bagnaiolo del primo piano ha chiesto se deve rinnovare domattina l’impacco al numero 20.