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pelopsis e di caprifoglio aveva saputo fonderli ed armonizzarli colle sue efficaci velature. Dall’angolo d’uno dei quadrilateri, verso mezzogiorno, si slanciava una svelta torretta antica ridotta ad uso d’abitazione, con una meridiana sulla facciata, e una banderuola rossa in cima, e dal suo elegante balconcino medioevale scorreva lontana la vista sulle Alpi Pennine la cui tinta cerulea, delicatissima, appena staccava di tono nell’azzurro del cielo.

Il chiostro, che nei giorni di pioggia serviva di passeggio per la reazione, era di buona architettura e vi si aprivano varie uscite e un grande atrio per le carrozze; molti rosai rampicanti, Aimè Vibert, allacciavano i loro robusti getti intorno agli archi e i pallidi fiori facevano capolino a ciocche a ciocche dalle belle colonne spirali.

A ponente, lo stabilimento era addossato ad un’alta collina cinta di viali a guisa di parco, per modo che, traversando un piccolo ponte, i bagnanti potevano recarvisi senza prendere le scale. In quel giardino le conifere si alternavano cogli alberi da frutto e col mirto malinconico tagliato a piramide o a spalliera, memoria claustrale anch’esso come certi capanni d’edera e di lauro fitti tanto da non lasciar passare raggio di sole. Qui e lì una pianta esotica coltivata con cura speciale, un gruppo di tiori tradivano la. passione del medico per l’orticoltura.

Il vertice della collina si spianava in una