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geva l’intensità. Quasi imberbe, meno l’ombra forte che dava una certa grazia virile al labbro superiore, quel volto era disegnato a tratti larghi e nobili come un abbozzo d’artista.

Montalto portava i neri capelli ritti sull’ampia fronte pensosa e aveva nella bocca un’espressione quasi impercettibile, ma persistente, di fino sarcasmo che solo il suo schietto sorriso sapeva disciogliere in un raggio di bontà. Bellissimi erano gli occhi bruni, d’un bruno caldo e vellutato in cui scintillavano luci più chiare, come piccole gemme: occhi che sanno guardare profondamente, interrogando; occhi nei quali certe volte tutta l’anima rifulge in un lampo, o che sotto l’impero della volontà rimangono impenetrabili e muti.

Invitato fra i primi a quelle geniali riunioni della sera, Montalto divenne uno dei più assidui frequentatori dell’elegante salotto della marchesa. Egli era stato eletto da poco professore al liceo della città, e, rinunziando quasi per intero alle lezioni private, la sera poteva concedersi con poca i fatica un sì piacevole svago.

Alla prima, egli aveva accolto con vera afflizione quel totale cambiamento nelle abitudini quasi claustrali di casa Riace; gli doleva di veder sollevato agli occhi di tanti che gli sembravano profani, il poetico velo di solitudine che aggiungeva per lui un grande fascino alla dolce intimità delle due signore. Ma il contegno di Violante non poteva che rassicurarlo: il suo riserbo era quasi