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Il giovane musicista, salendo per la prima volta e non senza stento, la bella scala a chiocciola di marmo nero del palazzo Riace che il Bibbiena aveva disegnato, sentì nell’anima il solito sgomento delle cose ignote.
D’indole un po’ schiva, egli provava dinanzi alle continue, nuove conoscenze richieste dalla professione, in quei mesi di tirocinio quale maestro di pianoforte in una città dianzi sconosciuta, una specie di riluttanza orgogliosa, un senso di vergogna per l’aridità dell’insegnamento che gli pareva offendere l’arte un tempo vagheggiata sotto altra e più libera forma: era un’ardua lotta in cui la ragione doveva vincere la prepotenza dell’istinto.
Ma quel giorno, appena ebbe varcata la soglia dell’anticamera, appena fu introdotto nelle stanze da un vecchio cameriere dallo sguardo onesto e fedele, l’impressione consueta si tramutò in un senso di strana, indefinibile dolcezza, e gli parve che dal ricco appartamento in cui la severità ari-