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Avrei bisogno di scrivere a tutti; ma come liberarmi dal primo volume, unica speranza mia per venire a Roma? Ranieri, che ho veduto tutti i giorni durante la mia malattia, mi ha fatta l’assistenza medesima dell’anno scorso; ed egli sa qual passione sia questa mia di venire a Roma, e come vi starei meglio che non a Napoli, dove sembra che questo benedetto reuma abbia preso a perseguitarmi. Del rimanente, sto bene, anzi assai bene, in generale, di salute. E voi come state? Anche voi avete passato un cattivo inverno: ma questo inverno è stato cosi orrido, almeno in Napoli, che non si troverebbe l’uguale neppure nel finimondo. Avete veduto quel Condolacelo cosi ribelle? Scommetto che si sta divertendo nel carnevale, cioè nel secondo carnevale che io passo in letto, o almeno in casa. E viva quel brutto Concioli: scommetto ancora ch’egli si è dimenticato di quei di Napoli: ma ditegli che quei di Napoli non si sono dimenticati di lui, e, fin l’altro giorno, parlavamo di lui con Leopardi. Povero Leopardi! Quello si che deve essere infelice, con quella salute e con quell’ingegno! Spero che ormai abbiate veduto, e piú d’una volta, don Vincenzo Colonna, e ch’egli vi abbia dato il Progresso. Fategli gradire i miei piú affettuosi saluti: uomo veramente di proposito, ed una delle piú lucide menti che io conosca.

Addio, mia buon’amica: io ho torto, in generale, di scrivervi poco, ma voi dovete saper compatirmi fino a che non avrò sprigionata la mia mente da questo infame, da questo iniquo, da questo empio primo volume, che mi ha tanto vessato e tormentato, e dal quale non sono interamente libero. Non ho piú scritto a Torino, ed è anche un fallo gravissimo: debbo scrivere a Firenze, e neppure ho scritto. Tutti si lamentano del mio silenzio, ed io piú degli altri. Ma la settimana entrante, chiuderò a chiave i miei quaderni, e scriverò a Torino, scriverò a Firenze, scriverò a voi...

Addio, addio mia cara amica, mia buon’amica; siate indulgente con me e perdonatemi. Addio di nuovo. Napoli, 8 febbraio 1834.