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III

Amica pregiatissima, Se io avessi a narrarvi ciò che sono stato lo scorso mese di giugno, temerei forte di dover perdere alcuna cosa di ciò che io tengo per caro, voglio dire della vostra stima. L’infermitá di mio padre, il vederlo ridotto si vicino al suo termine sono state certamente cagione di un legittimo e vivo dolore; ma un’altra malattia era in me, la quale mi travagliava, opprimendo la mente di una densa malinconia, e riducevami ad un’assoluta incapacitá di qualunque fatica, e financo dello scrivere ogni benché brevissima lettera. I capricci della stagione, le calamitá del luogo natio, l’iniqua sorte degli amatissimi compagni miei mi avevano si prostrato l’animo, che io credeva di perdere il senno. Ei mi sembrava di essere tornato fanciullo, ed avrei voluto dirvi ciò che io soffriva, e farmi un poco a favellare con voi cosi della codardia degli uomini come del disprezzo che vuoisi avere delle lor crudeltá e delle loro paure...

Ma nello stato in cui scorgeva me stesso, io dubitava non avesse forse il mio dire a sembrarvi quale il sognar di un infermo. E però mi sono taciuto, adirandomi forte con me medesimo, ed avendomi a vile il dolermi. Pur qual conforto, se io vi avessi aperto le ragioni del mio penare, aspettando qualche parola in cambio da voi, onde si richiamassero a me gli spiriti o troppo abbattuti o troppo ritrosi! Quest’opera di conforto io non l’avrei certamente implorata da donna che fosse stata di volgo: si veramente da colei che io stimo sopra quante altre s’innalzano sul loro sesso e meglio sanno rivocare gli uomini alla nobiltá della loro natura sia con lo incitare i magnanimi, sia con lo schernire i vigliacchi.