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del veltro allegorico di dante 21


che il conte Ugolino e la sua famiglia, prigionieri da nove mesi, perirono di fame nella torre; misero esempio di trascorrevol fortuna (marzo 12). Guelfuccio III di Arrigo fu serbato in vita ed a lunga cattivitá; Capuana di Pánico fuggi a Bologna coi teneri pargoletti Matteo e Beatrice; le altre linee della casa Gherardesca restarono in Pisa; i conti di esse poscia vi rifiorirono. Da ciò si scorge che la vendetta de’ Pisani, giusta o ingiusta che fosse stata, si restrinse alla famiglia propria del conte Ugolino; che ai fanciulli non fu tolta la vita: e che i tre nipoti del conte venuti meno insieme con esso, innocenti senza dubbio della cessione delle castella, non erano di etá novella, come asserisce il poeta (Inf. XXXIII, 88); ciascuno di essi avea moglie. Così vinta dai bisogni della poesia, tacque in parte la storia, e nocquero al vero i piú bei versi che uomo scrisse giammai; al modo stesso un romanzo (Saint Réal) ed una tragedia (Alfieri) ci han fatto credere che Filippo II di Spagna, il quale nel suo anno trigesimo terzo sposava Isabella di Francia, potesse averla rapita giá vecchio a suo figlio don Carlo non ancora nel tempo di quelle nozze pervenuto al tredicesimo dell’etá sua.

Unico fra i coetanei Dante accusò Ruggieri di aver dato l’émpio consiglio del vietare il cibo all’infelice conte Ugolino: ma niuno degli storici contemporanei, guelfi o ghibellini che fossero, aggrava di ciò l’arcivescovo: tutti affermano che l’opra fu dei pisani: un solo disse il vero, ch’ella fu di Guido da Monte Feltro in cui stava il tutto del reggimento. L’arcivescovo non era pisano, sì del Mugello: quando era podestá poteva uccidere il conte Ugolino e nol volle: non altrimenti che il vescovo di Arezzo, potea tentare di ritenere il dominio e nol fece. Se Ruggieri tradí alcuno, tradí non altri che il signor di patria non sua; pure fra i traditori della patria si scorge l’arcivescovo nell’Antenora dell’Alighieri, cui seguitò senza piú l’innumerabile gente degl’interpreti e degli spositori. E quantunque Niccolò IV, nuovo pontefice successore di Onorio IV, avesse chiamato l’arcivescovo in Roma perché si scolpasse della morte del conte, tuttavia si sa che da ciò non provenne alcuna condanna o censura.