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onore la prima del 1816, e rinfresca perciò i dritti od almeno le rimembranze del parlamento siciliano. Tali furono le politiche trasformazioni di Sicilia dal 1S12 al 1848 ed al giorno, in cui pubblicossi la costituzione di Napoli. E però chi potrebbe negare che i diritti d’avere il proprio parlamento rimasti fossero illesi alla Sicilia? Che il congresso viennese non avea la facoltá di porli e non li pose nel nulla? Ma se i diritti della Sicilia son certi, giova forse ad essa l’usarne? Altra disputa, risponde ottimamente il Palmieri, è questa: solo al parlamento da convocarsi spetta il vedere se giovi o no recar cangiamenti a quei diritti. Sta bene: si convochi dunque il parlamento: il solo atto di convocarlo fará cessare le dispute, dando a conoscere che l’isola è indipendente da Napoli, ma che l’una e l’altra Sicilia, sottoposta allo stesso re, formano un solo ed unico regno, come sono la Svezia e la Norvegia, come erano la Sardegna ed il Piemonte.

I piú dotti e leali fra’ siciliani scrittori noi negano punto; ma, se non mentisce il romore, altri dei piú avventati ardirebbero chiamare in dubbio si fatta veritá, e lacerare il seno d’Italia. Procederebbe un tal cipiglio dalle giustissime avversioni contro le ree conseguenze, che si trassero fin qui dall’articolo 104 viennese, quasi dicesse non dover la Sicilia rimanere indipendente da Napoli. Si, deve rimanere, ma unita sotto un solo re con Napoli e ciò discende non dall’art. 104, ma dal senso intimo della costituzione del 1812, e dalle parole, che ho giá riferite intorno al placet dell’indipendenza. Tutto il dippiú restò in balia del re; or qual’era questo «dippiú?». Era la «cessione» che avrebbe, secondo i voti del parlamento, dovuta fare della Sicilia il re al suo «regai primogenito»; era la scelta di chi regnar dovesse in Sicilia, se il re se ne allontanasse. Ma su questi due punti non consentiva egli ai voti ilei parlamento; piena ed intera si manteneva perciò la regia prerogativa, dopo aver conceduta la indipendenza da Napoli. Alla pace generale il re fece uso del diritto riserbatosi, e manifestò le sue intenzioni colá nella carta del 27 maggio 1815, appellata delle «trenta linee», ovvero dei trenta capi, quanti