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DEI FATTI DI SICILIA

nel 1820

e delle aspirazioni nel 1848

I.

L’anno quattordicesimo dell’etá mia era pervenuto alla metá del suo corso, quando i sanguinosi rivolgimenti di Napoli mi spingevano in Sicilia. Il vascello dell’arnmiraglio Caracciolo accolti avea grandi stuoli di persone di ogni sorta; ivi era la mia famiglia, e nel di 26 dicembre 1798 approdammo a’ lidi ospitali di Palermo. Fui tosto confidato alle cure del padre Piazzi, acciocché imparassi le discipline dell’astronomia, ed egli amommi con amore paterno, il quale, per una eccezione felice, di tanto piú crebbe di quanto i miei spiriti si chiarivano alieni dall’apprenderle, rivolti a vagheggiare un’altra specie di bello, tuttoché Cerere fosse comparsa, me presente, agli occhi del grande astronomo, alla quale Michelangiolo Monti delle Scuole pie applicò i detti di Tibullo: «Et sua de coelo prospicit arva Ceres». Il padre Piazzi pigliava diletto di non so quali fanciulleschi sofismi contro il sistema di Copernico, e collocommi lá in un cantuccio del suo ampio scrittoio, dove rideva in sé de’ risentiti modi, ai quali dava io di piglio a certe enormi tavole di logaritmi del Callet. In quel cantuccio vidi e conobbi quanti v’erano piú insigni uomini e donne in Sicilia; Giovanni Mele, Domenico Sciná, Rosario di Gregorio, nomi che non