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lesti, o sia di intelligenza e di moralità. Mi sembrò che simile dialogo quale parodia d’una Danza dei Morti, potesse aver posto in questo libro, eziandio per la ragione, che mentre nelle Danze Macabre o dei Morti, (altra delle specie di linguaggio figurato) la moralità della rappresentazione è sempre mistica e sotto interpretazione, qui invece è aperta e parlata, in guisa tale e con tale ingegno, che la mente si dismette dalla lettura tutta confortata da’ pensieri di speranza e di fede.

Ritengo quindi di far cosa gradita agli intelligenti, il togliere dal secreto e dalla oblivione uno scritto, che per diversi rapporti merita la luce.

Esordisce l’ignoto autore da un distico in ritmo latino, di quella specie di versi a rima che chiamansi Leonini. Deplorasi in essi la cecità del mondo che milita sotto lo stendardo della vanagloria, senza pensare alla vanità di tutte le cose di quaggiù, labili per loro natura e transitorie.

Fidati piuttosto, dice il poeta, delle lettere delineate sul ghiaccio che appanna i vetri, che non della vana fallacia del mondo fragile.

Plus crede litteris scriptis in glacie
Quam mundi fragilis vanæ fallaciæ.

Finito questo proemio salta di piè pari il poeta dal latino al francese, e narra in quattro versi che una volta ebbe il gran talento di dormire, e vide dormendo un morto puzzolentissimo, pieno di vermi e di schifezza, giacente nella sua bara piena di putridume.

Il teatro, come si vede, non è de’ più ameni.

Ripiglia il poeta la lingua latina, e narra come presso alla bara stava l’anima uscita da quel corpo medesimo, desolata, piangente e gittando urli disperati, lo chiamava e così gli diceva: O morto sucido e puzzolente, svegliali, levati, parlami: non fu un tempo, uomo