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successo che lo aspettava anche quando aveva dalla sua la ragione, come allora che, con uno scambietto parlamentare, si fece sottostare una sua interpellanza ad un’altra che era sôrta dopo.

E qui mi si permetta soggiungere che per quanto sia triste ed uggioso il sentire la voce di volgari mattoidi in quelle nobili aule dove aleggia ancora lo spirito di Cavour e di Garibaldi e dove, or non è molto, parlarono Sella, Fabrizi, Spaventa, pure è in disarmonia alla tempra di un vero regime democratico, rappresentativo, come vorrebbe essere il nostro, il non permettere a costoro di esprimersi nel solo linguaggio che essi posseggono.

Oh! per Dio, non estendetelo il suffragio così come avete voluto farlo, Dio sa con quali risultati per la libertà del paese! ma, una volta che l’avete esteso, subitene, sino all’ultimo, le conseguenze, lasciando libera affatto la parola a quegli eletti che corrispondono, nei modi come nelle idee, agli elettori da voi decretati e voluti.

Mettiamo, per esempio, che in uno slancio d’umanitarismo, il quale non sarebbe poi troppo alieno dalle abitudini retoricamente leguleie dei nostri legislatori, mettiamo, dico, che a quella dozzina di Danakili che fan mostra di essere sudditi nostri sulle spiagge di Assab, si dia il voto e la eleggibilità, non perciò potreste pretendere che, nominati, essi vi parlino il linguaggio della Crusca e adottino le riserve, i sottintesi e le sordine che acquista la parola, passando nei profumati e femminei salotti politici della capitale!

Fatto è che il nostro povero tribuno finì, poi, col