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rifiutò di battersi se prima il Parboni non giustificava la sua onorabilità e quando egli ciò fece ampiamente, ritirò le accuse e disparve.

Dopo, di lui non si sentì più parlare altro che all’epoca dell’esposizione di Milano, ove espose un freno di sua invenzione per ovviare al disastri di una vettura lanciata in fuga.

In Roma, nel 1882, gli strati più intimi della plebe, dall’indole troppo aperta, dalle tradizioni storiche, nuove ed antiche, dalla reazione naturale contro l’antica dominazione dispotica erano tratti agli eccessi demagogici: ve li spingeva anche il fermentare e il ripullulare di vecchie sette, e la bonaccia politica che tenne dietro alle prime ebbrezze del 1870; la mediocrità universale lasciava fecondo il terreno ad ogni fermento, specialmente dopo scomparso l’ultimo dei grandi che formarono l’Italia. E queste torbidi correnti politiche apparivano tanto più minacciose in vicinanza alla sede del Governo.

Gli antichi rioni, le antiche e numerose confraternite e corporazioni, trasformatesi d’un tratto in società operaie, avevan mutati i loro capi da cardinali e monsignori e da principi o grandi signori ch’erano prima, in faccendieri politici, in tribuni. Si andarono formando circoli sopra circoli, gli Anticlericali, quello pei Diritti dell’Uomo, il Centrale Repubblicano, ma invece di fare della vera democrazia, di procurare, cioè, il benessere del popolo con quel magazzini cooperativi, con quelle banche popolari, con quel dormitori e ricreatori che i nostri veri liberali Luzzatti, Fano, Sonzogno, Viganò, Fortunato, seppero diffondere in