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derebbero alle nuove foggie di tatuaggio delle galanti Taitiane; ma respingono con superbo disdegno, ogni vasto o nuovo concetto, che conturbi il loro pacifico ambito, e quindi anatemizzarono la scoperta d’America e poscia quella del vapore, ecc., ed ora del Darwinianismo, e le applicazioni delle scienze naturali alle sociali, salvo poi a sostenerle a spada tratta, quando, loro malgrado, saranno divenute di dominio pubblico.
Andiamo più in su, e vediamo uno scienziato distinto mettere in canzonatura le scoperte dell’antropologia criminale, che pure porgevano un’applicazione pratica utile alla sterile chincaglieria che forma il più grosso capitale degli antropologhi.
La ragione, in fondo, è che gli uomini tutti odiano le innovazioni, perchè essi obbediscono involontariamente alla legge d’inerzia; e provando una fatica nei centri nervosi, un dolore nel dover afferrarle, cominciano col respingerle, e perseguitare coloro che tentano di convertirneli.
Questa tendenza giova a spiegarci la genesi di quel fenomeno che pure ci pare tanto contrario: l’origine dell’estetica. Quando infatti, noi ci facciamo ad analizzare con Helmoltz e con Janet (Revue scientiphique, 1886) la principalissima fonte estetica, vediamo che essa si riduce alla ripetizione nei toni, nelle rime, nell’aria dominante della musica (in molti selvaggi, e anche nei liguri fra noi, si risolvono canti musicali nella pura e sola ripetizione di un tono), nelle linee simmetriche o quasi simmetriche nell’ornato, e anche nella pittura; ogni volta che il bello cercò il plauso fuori della simmetria, col grottesco, eccitò curiosità momentanea, ma