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libro secondo — cap. iii. 51

con l’altro: e massimamente infra queste. E ciò si dimostra per le compagnie di quei che vanno insieme a viaggio; dove interviene, che tali sovente vengono a questione per cose vili, e che sono di poca importanza. Oltra di questo gli uomini s’adirano assai con quei servi, che loro ministrano innanzi; e che loro stanno d’attorno. — E così il fare comuni le possessioni qui ci partorisce queste, e simili difficoltà. E molto mi pare da preferire il modo, che si costuma oggi intorno a questa materia; quando, cioè, dai buoni costumi, e dai buoni ordini ei fosse ridotto più bello: imperocchè e’ verrebbe ad avere le comodità dell’uno e dell’altro modo. Io intendo dell’uno e dell’altro, cioè, e del modo, che fa le cose comuni, e di quello, che le fa proprie: perchè e’ si debbe fare in modo che le possessioni in certo verso sieno di comuni, e in fatto sieno proprie. Perchè in tale ordine essendoci le diligenze divise nei particolari, non ci interverranno querele tra l’uno e l’altro; e maggiormente gli uomini vi baderanno: facendo ciascuno la diligenza per sè stesso accuratamente. E la virtù farà poi che l’uso d’esse sarà a comune secondo l’antico proverbio, che infra gli amici ogni cosa è comune. — E questo modo è scritto per legge in alcune città oggidì, come per non impossibile ad essere usato; e massimamente nelle ben governate ve n’è una parte osservata, e l’altra vi potrebb’essere. Perchè in tale ordine ciascuno avendo le possessioni proprie d’una parte dei frutti, ne fa bene agli amici, e d’un’altra al pubblico, siccome s’usa in Sparta. Dove quei cittadini usano i servi l’uno dell’altro come se e’ fossero (per via di dire) proprî; e il medesimo fanno de’ cavalli e dei cani e del vitto; se nell’essere fuori per la provincia e’ mancasse loro. È manifesto adunque essere meglio che le possessioni sieno