della moglie, e delle facoltà: e il simile di ciascun’altra cosa, che occorra. — Ma nel modo, che intende Socrate, non lo potranno già dire quei, che usano le donne a comune, ed i figliuoli; ma lo diranno come tutti, e non come un solo; ed il medesimo diranno della roba. È manifesto adunque, che con questo nome di tutti si può incorrere in fallacia, perchè tal nome, e quello, che vuol dire l’uno e l’altro, per potersi pigliare in due significati, comprende insieme, e il pari, e il caffo; e nei discorsi fa il sillogismo sofistico. Onde che tutti dichino questo concordantemente è bene, ma non è già possibile, e nell’altro modo preso, non è cosa verisimile. — Oltra di questo alla posizione di Socrate conseguita un altro incommodo, imperocchè l’accomunar troppo ogni cosa, genera straccurataggine; conciossiachè la diligenza si abbia delle cose proprie: e delle comuni se ne abbia manco, che non avrebbe ciascuno, se elle fussino sue. Che in vero delle altrui cose non si tien conto, come se altri di loro ne avesse la cura; siccome si usa di fare dove sono assai servidori, che vi servono molte volte peggio, che non fanno i pochi. — Ma nel modo detto può un cittadino aver mille figliuoli, ma non già come se fussin suoi proprî; ma di qual un si voglia: onde avverrà che di tutti ugualmente non se ne sia tenuto alcun conto. Ancora nel modo detto ciascun cittadino potrà dir di uno che abbia operato bene, egli è mio figliuolo; e così di uno che abbia operato male, o di quanti un si voglia, come è dire: egli è mio, quando e’ sia d’un altro; in cotal modo dicendo di ciascuno di quei mille, o di quanti la città ne abbia. E questo ancor dubitando per essere incerto a chi si abbia data la sorte di generare dei figliuoli, o che gli avuti sien vivi. — Ma non sarebbe ei meglio, che si dicesse: il mio, e il non mio dei figliuoli,