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libro primo — cap. iv. 21

servo, e suddito chi venisse in podestà d’uno che ti potesse forzare, e che di te avesse maggior possanza. — E certi sono che così l’intendono, e certi in quell’altro modo: e sono questi tali, che diversamente l’intendono ancor filosofi. La cagione di questo dubbio, e che fa dissentirgli è: che la virtù accompagnata dalla roba in certo modo è atta a poter sforzare grandemente, e perchè sempremai chi vince ha l’eccellenza di qualche bene; onde avviene, che la forza non paia senza virtù: ma il dubbio resta solamente nel giusto. Di qui sono alcuni che hanno opinione, che giusto sia quel solo, che si fa per amore. E certi sono all’incontro che vogliono esser giusto, che chi ha più forza comandi. Ma discordando in fra loro queste opinioni, l’una parte d’esse non dice cosa alcuna che vaglia, e che sia atta a persuadere; cioè, ch’e’ non debba comandare chi è più virtuoso. — Certi altri si ritrova i quali pigliano, siccome essi stimano, alquanto di giustizia dal loro; essendo, a dire il vero, la legge una certa giustizia, mettono per giusta la servitù, che si fa nella guerra; e insieme dicono, ch’ella non è giusta, per esser possibile, che il principio della guerra sia ingiusto, e perchè e’ non si debbe mai chiamar servo chi sia indegno di stare sottoposto. Imperocchè se e’ fosse altrimenti, ne conseguirebbe che ei fussin servi, e discesi di servi molti che appariscono molto nobili; in caso ch’egli intervenisse, che simili presi in guerra fussin comperati. E però non vogliono tali questi simili chiamar servi, ma barbari. E quando essi affermano questo, e’ non ricercano d’altro che del servo per natura, il quale noi da principio abbiam posto, che egli è necessario affermare che e’ si diano certi uomini, i quali in ogni luogo sien servi; e certi che non sieno in luogo nessuno. Ed il medesimo affermano costoro della nobiltà,