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Per primo quindi venne accolto il Dialogo de la bella creanza de le donne di Alessandro Piccolomini, gioiello della Rinascita, la piú bella «scena» che il Cinquecento ci abbia lasciato, dove l’intento didattico deliziosamente si svolge di su una comica trama. Per quali meati sa Raffaella penetrare nel cuore di Margherita e corromperlo? Il filo conduttore è l’insegnamento della bella creanza, ma lo scopo pedagogico si converte in arte rappresentativa squisita, in un gioco psicologico tutt’affatto moderno. Margherita viene convinta dagli ipocriti sillogismi della ruffiana, ma piú dallo sciorinar, che questa fa, di tutti i mezzi e di tutte le allettevoli forme, onde la donna può, e deve farsi, bella e godere la vita. Per cui il racconto di tutte le finezze e i segreti della toilette (perfino le ricette) vengono via via a sedurre la ingenua sposina, che, solleticata in quel fondo civettesco, che in ogni donna naturalmente risiede, fugati gli scrupoli e lusingata nell’amor proprio, cede infine all’amore e alla vivace giovinezza.
Il bizzarro ingegno di Michelangelo Biondo ci fornisce l’esemplare del trattato misogino. Strano, contorto, ineguale è lo stile di questo scapigliato; ma appunto in questa spontanea incostanza e nella sinceritá espressiva sta il pregio dell’originale operetta Angoscia, Doglia e Pena, le tre furie del mondo.
Questa è un guazzabuglio, dove una specie di «confessione» autobiografica di disgrazie coniugali dá luogo a curiose osservazioni psicologiche, a interessanti paradossi, a strampalate induzioni contro la natura intima della donna e contro i legami matrimoniali. Lui era un gran dottore in medicina, in iscienze naturali, fisiche, occulte. Lei una fiorente bellezza con una gran massa di trecce bionde e un viso «ornato di pietosi colori e di ésca amorosa, che dal petto venia a quei labri vermigli, di quali ricevendo il fiato, ardeva maravigliosamente». Era la lucente primavera; ed egli la amò, riamato ardentemente, e la prese come sposa. Oh, i dolci baci dapprima, le acute carezze! Poi le cose mutarono. Incominciò lei a non essere piú contenta del grande scienziato, oppure lui non seppe farsi piú amare? Mistero! Fatto è che la sfrenata vanitá, il velenoso inganno, la proterva superbia a poco a poco s’impadronirono della bella napoletana. Si diede ad indossare vestiti di panno finissimi, fimbriati, tratessuti di vari colori, sottane di damasco od ormesino; le gambe, strette da calze di seta con giarrettiere d’oro, terminavano in minuscole pianellette, di cordovano in casa, di velluto fuori, tutte «arabescate con tagli, striche e cordeline», sí che eccitavano «a