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154 ii - angoscia doglia e pena


cosa è donna, finalmente la dimanda «suave fuoco», la natura del quale è di consumare. Pertanto, essendo la donna consumazione nostra ed ultimo fine, dopo il quale non vi si vede altro di noi che sola cenere, perciò saviamente dice il vecchio che la donna è fuoco, perché, sí come dal fuoco le legne diventano polve e cenere, cosí del falso amore di qual vòi donna alfine l’uomo diventa a sembianza d’un legno consumato dal fuoco materiale. Imperò, per la grande astuzia e singulare sua dote, meritamente assimigliò la donna al detto fuoco: perciò dice «suave», cioè forte fuoco, cioè ardor grave, il quale ne riduce a l’ultimo fine, cioè alla consumazione. Sí che da qua si conosce la perfezzione de ciascuna donna. Ma, accioché non paia arido e secco questo mio fine, esponerò meglio ch’io potrò, de parte in parte, accioché voi, afflitti, sconsolati e mal accorti, conosciate il vostro fine. Il che conoscendo, fuggirete da la donna, come dal profondo abisso, come da la spada tagliente e come da la falce di morte orrenda. Imperò «suave fuoco» altro non vòl dire che non avertito male, overo occulta passione, o venenoso diletto, il quale vi mena da questa vita, che sappete, a quella che non conoscete quel che sia. Sí che da la natura del fuoco descenderete alla natura della vostra donna; perciò, sí come il fuoco ogni cosa consuma, cosí ancora la donna: pertanto la donna è fuoco, il quale conduce in polve chi l’ama. Imperò credo che Socrate vòlse dire in «suave fuoco» fuoco austero, fuoco aspro e morbo crudele, perché il fuoco, cioè, sacro gli è quel male che si accende nelle membra interiori, del quale si sente un dolore acuto circa il core. E, quando la detta passione ascende alla testa, l’uomo diventa palido e smorto, contrario effetto alla salute, ed è vero segno e manifesto della vicina morte, cioè del presto morire; ed è, a comparazione della ferita, infiammato con gran dolore, il che è segno del passaggio di questa vita a l’altra. Pertanto dico che Socrate intese essere tale la donna qual è il vizio del sangue sottile, acceso del furore della còlera. Deh, Dio! che grave dolore, che acuto morbo, che incurabil malatia, che atroce pena, che incomportabile supplicio! Oh che consumazione senza riparo di danno eterno!