Pagina:Trattati del Cinquecento sulla donna, 1913 – BEIC 1949816.djvu/134

128 ii - angoscia doglia e pena



Nifo e Socrate.

Nifo. Che cosa è donna?
Socrate. Padul di morte, ed ha col serpe regno,
qual nascosto venen in bocca serva.


Biondo. Convien ch’io afflitto vada piangendo i miei tempi passati, i quali ho mal speso in amare una putrida palude, senza avedermi quanto son per dover essere altissimo essempio d’infelicitá a tutto il mondo. Pertanto non vi meravigliate, felici amanti, piú di me, che nè io nè il mio maestro di ciò che abbiamo detto sia satisfatto. Perciò, conoscendo egli il duol mio grave, insoportabil peso, il mio pianto, e di tanti anni, non cessa de dimandare al vecchio che cosa è la donna, sí come lui stesse chiuso nella profonda grotta overo nel scurissimo carcere, che non potesse vedere con gli ochi quel che chiede con la voce: perciò, come dubioso e pieno di sospetto, come uomo sottoposto alla paura, se la donna era aqua o succo di qualche erba amara o dolce, dimandava — Èvi ancora — diceva — uno di quelli cibi che ristorano i corpi consumati? Èvi liquor d’oliva sacra? Èvi il succo del frutto della vite? Èvi fonte vivo o fiume corrente? — Panni che in questo modo rispondeva il savio Socrate: — No, no è cosa di detti succi, acque nè liquori. — Ma, acciò il mio maestro non rimanesse non satisfatto e di cosa vile, in tal modo gli risponde il vecchio: — Sappi, o amoroso Nifo, che la donna è una putrida palude, in cui la nostra morte ha il vero dominio. — Pertanto, accioché non rimanga loco inesplorato di questo deserto, nè parola inesposta del principiato ragionamento, diròvi, o gioveni, come a pescatori, che cosa è la palude di essa morte, perché cosí conoscerete la donna non essere altro che mortalissima palude. Sappiate che per tutto si dice e giudicasi quella cosa essere peggiore e piú vile che in