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percioché chi piú ne riceve e chi meno; non altramente che il sole, il quale illumina egualmente ogni cosa, ma non è giá ricevuto egualmente da tutte.

Benucci Cosi la intendeva io a punto; ma che direbbe la Signoria Vostra di quelli che, oltra il mettersi a mille danni e manifesti pericoli, eleggono ancora spontaneamente di morire per la cosa amata?

Varchi. Quello che risponderebbe la Vostra, cioè che lo eleggono non come maggior bene, ma per menor male.

Benucci. È vero cotesto: pur pare che vogliano meglio ad altrui che a sé.

Varchi. Questo non può essere; ma eleggono, percioché giudicano cosí essere, se non il loro meglio, almeno il menor danno.

Benucci. E qual maggior danno può essere che il morire?

Varchi. 11 vivere come viverebbono essi. Poi non sapete voi che nello amor perfetto, del quale ragioniamo ora, lo amante e lo amato sono una cosa medesima, essendosi trasformati l’uno nell’altro ed uniti insieme?

Benucci. E perciò non so io vedere perché si debbia mettere a pericolo piú l’uno che l’altro.

Varchi. Ben so che sapete che lo amato è in questo composto il piú nobile, e perciò dee l’amante, come men nobile, mettersi a tutti i rischi in beneficio dello amato; come si vede naturalmente che il braccio, per riparar la testa, la quale è piú nobile, si para innanzi ed elegge di esser ferito egli, per salvar la testa.

Benucci. A me pare che nell’amor perfetto, quando è reciproco, ciascuno sia amante ed amato scambievolmente; e cosí non piú l’uno che l’altro, ma amendue arebbero a voler correre i medesimi rischi egualmente.

Varchi. Cosi è vero, e cosí aviene molte volte; ma tuttavia sempre v’è l’amante primo, cioè quello che cominciò ad amare, e l’amato primo, cioè quello che cominciò ad esser amato; se bene, fatta poi la unione, ciascuno è insiememente ed amante ed amato. Ed i dii, come racconta Platone, rimunerano