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Varchi. Sono contento. Conciosiacosaché questo nome «infinito» significhi piú cose e varie, di quale intendete voi delle sue significazioni?

Tullia. Voi non mi avete inteso ed avete equivocato. Io dico che voi mi dichiariate come e in quanti modi si piglia questa parola «infinito».

Varchi. Questo sarebbe uno entrare nello infinito. Pur ve ne dirò quanto or mi soviene e quanto sará il proposito del presente ragionamento. «Finito» ed «infinito» sono propriamente passioni ed accidenti della quantitá; e la quantitá è di due ragioni: continua, la quale si chiama «magnitudine» overo «grandezza»; e discreta, la quale si chiama «moltitudine» overo «numero». E, preso lo infinito in questo modo, non si truova cosa niuna in niun luogo, la quale sia infinita in atto; dico «in atto», perché, come niun corpo è infinito in atto, cosí tutti sono infiniti in potenza, perché si possono dividere in infinite parti, e cosí sempre in infinito. Ma noi ragioniamo dello infinito in atto, e non in potenza.

Tullia. Ditemi un poco: le linee non sono quantitá continua?

Varchi. Sono.

Tullia. I matematici tirano pur le linee in infinito.

Varchi. È vero. Ma i matematici favellano secondo la imaginazione e non naturalmente, ed anche con la imaginazione non si può intendere né comprendere cotale infinito: ma essi dicono «in infinito», cioè senza preciso termine, per poter pigliar quella parte, che torna bene al proposito loro.

Tullia. Perché non si può intender lo infinito?

Varchi. Percioché lo infinito è un quanto interminato: cioè una grandezza che non ha termine over fine; onde non se ne possono pigliar mai tante parti, che non ve ne restino infinite altre da potersi pigliare, e perciò la mente e Io intelletto nostro vi si confonde dentro.

Tullia. Intendo; ma la quantitá discreta mi pare pure infinita, perché mai non mi potrete dare un numero si grande, che io non lo possa far maggiore, aggiungendovi uno o qualsivoglia altro numero.