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Tullia. Di cotesto bisogna che voi domandiate un maestro di scuola, ché io, per me, non fo professione di grammatica.
Varchi. Buon per gli scolari, se i maestri sapessero cotali cose, benché questo non è l’officio loro, per dirne il vero. Né io ve ne domando come grammatico, si che non vi paia fatica di rispondere.
Tullia. Che volete voi ch’io risponda? 1 verbi hanno tempo, ed i nomi significano senza tempo.
Varchi. Ora mi accorgo io che voi sapete ogni cosa e fate le viste di non saperne niuna, per farmi dire. Ma, se non c’è altra differenza che questa, la quale non è sustanziale, ma accidentale, perché non mi concedete voi il primo tratto che «amore» ed «amare» significano una cosa medesima?
Tullia. Mi pareva troppo strana cosa che un nome, il quale è si picciolo, avesse ad essere da quanto un verbo, il quale è si grande.
Varchi. Io non voglio rispondere ad ogni cosa, conoscendo che mi tentate. Credete voi ch’io non sappia che voi sapete, come io, che i nomi si prepongono e sono da piú che i verbi 5
Tullia. E dove volete voi ch’io l’abbia imparato? In quale autore? In su quello che fa la guerra grammaticale?
Varchi. E dove e in su quale autore avete imparato il contrario?
Tullia. In niuno. E vi confesso che io non sapeva prima qual si fosse di loro o piú degno o men perfetto dell’altro. Ed ora non so altro se non che niuno di loro è da piú dell’altro.
Varchi. E da chi avete imparato cotesto?
Tullia. Da voi. Non posso né voglio negarlo.
Varchi. Da me non l’avete mai imparato.
Tullia. Perché?
Varchi. Perché i nomi sono piú nobili.
Tullia. Troppo tosto vi contradite.
Varchi. In che modo?
Tullia. Se i nomi sono piú degni che i verbi, dunque non sono i medesimi, come affermavate pur testé in «amore» ed «amare». Questa loica non riesce sempre.