Or, dalla casa tua lontano, e profugo
su terra altrui, miseramente morto
lungi sei tu dalla sorella tua,
né con le mani mie, misera me,
io di lavacri t’onorai, né tolsi,
com’era giusto, il tuo misero peso
dalla vampa del fuoco: esequie avesti
da mani estranie, o misero; e sei qui,
a picciol vaso picciolo fardello.
Misera me, ché nulla mi giovarono
le cure antiche, che con dolce assidua
fatica io ti prestai: ché amico piú
alla madre che a me tu mai non fosti;
né delle ancelle alcuna aia, ma io
sorella tua sempre fui detta, ed aia.
Ed or, tutto è finito, in un sol giorno,
con la tua morte: al par d’una procella,
tutto hai rapito, e sei sparito. Il padre
è morto: spenta io son con te: lontano
sei tu defunto; e gl’inimici ridono,
e la madre non madre, è fuor di sé
per il piacer: ché tu segretamente
annunziar sovente mi facevi
che tu stesso a punirla un di verresti.
Ma tutto questo, il tuo Dèmone, il mio
Dèmone tristo m’ha rapito; e, invece
del carissimo aspetto, un’ombra vana,
vana cenere manda. Ahimè, ahimè!
Misero corpo, ahi, ahi,
per che miseri tramiti,
ahimè, diletto, muovi, e me distruggi!
Sí, mi distruggi, o consanguineo capo.
Entro quest’urna tua tu dunque accoglimi,