che mio sposo di nome Ercole sia,
ed a fatti di lei, della piú giovine.
Ma non giova, lo dissi, andare in collera,
per una donna ch’abbia senno; ed io
vi voglio, amiche, dir come disciogliermi
da questa doglia intendo. Un vecchio donò
serbavo ascoso d’un antico mostro
entro un vaso di bronzo. Ancor fanciulla,
dalle ferite del villoso petto
del moribondo Nesso io lo raccolsi,
che, per mercede, sui profondi vortici
del fiume Evèno, trasportava a braccia
i viatori, e non usava remi
per quel tragitto, e non vele di nave.
Ed anche me, quando io mossi col seguito
del padre mio, novella sposa d’Ercole,
portò sopra le spalle; e quando a mezzo
era già del tragitto, mi toccò
con temerarie mani; ond’io gridai.
Ed il figlio di Giove, si voltò
subito, e un dardo alato gli lanciò,
che, sibilando, gli trafisse il petto
sino al polmone. E, già presso a morire,
disse cosí la fiera: «O del vegliardo
Enèo figliuola, tal vantaggio avrai
dal mio tragitto, poi che tu sei l’ultima
ch’io traghettai. Se tu con le tue mani
raccoglierai delle mie piaghe il sangue,
che sul dardo s’aggruma, ove lo tinse
piú dell’Idra di Lerna il negro tossico,
un filtro avrai che a te l’amore d’Èrcole
stringerà, si che amar non possa femmina
ch’ei vegga, piú di te». Rammemorando