la lotta andasse, io dir non vi potrei,
ché non lo so; ma chi senza terrore
assistere poté, vedere, quegli
dir lo potrebbe. Io me ne stavo invece
percossa dal terror che la bellezza
mia, qualche cruccio infliggermi potesse.
Giove custode degli agoni, a quello
concesse fausto fin: se pure fausto:
ché, poi che ascesi d’Ercole nel talamo
invidïato, nel mio cuore nutro
terrori, un dopo l’altro, e per lui trepido
sempre; e una notte accoglie ed una scaccia,
con alterna vicenda, il mio travaglio.
E figli n’ebbi; ma li vide ei poco,
quasi bifolco che un remoto campo
abbia comprato, e solo quando semina
lo vede e quando miete, e non mai piú.
Ciò voleva il Destino: appena in casa,
via fuor di casa m’adducea lo sposo,
a servigio d’altrui. Da queste imprese
uscito è adesso; ed è piú grande adesso
Il mio terrore. Ché, da quando uccise
Ifito forte, noi viviamo qui
in Trachíne, fuggiaschi, ospiti in casa
d’un amico7; e nessuno ov’egli sia
può dire. Io questo so, che amari crucci
per la sua sorte in cuore mi gittò,
e se n’andò. Ma quasi certa io sono
che qualche male còlto l’ha: ché il tempo
breve non è, ma dieci mesi e cinque
da che messaggi non mandò: lo colse
certo qualche malanno orrido: tale
lo scritto fu che m’inviò lasciandomi.