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nelle sue parole che nella generica orientazione dei suoi pensieri».

Sta bene. Un po’ troppo color di rosa, perché, si sa, la passione dà le traveggole; ma sostanzialmente è cosí. E siamo anche disposti a credere col Jebb (al solito, senza giurarlo) che il lungo discorso che ella rivolge a Lica per indurlo a dire la verità, sia sincero e non infinto, siam pronti a perdonarle il mutamento di sentimenti, che, senza dubbio, ella dimostra poi nelle sue confidenze al coro. Ma sussiste il fatto che tutte codeste belle qualità non son da eroina, bensí da donna qualunque. Se non che, anche senza toccare i vertici dell’eroismo, una donna può avere facoltà che la innalzino un po’ sopra il comune gorgo delle anime. Ma Deianira non ne possiede proprio nessuna. Basterebbe la sua perfetta abulìa. Per quanto angosciata dalla troppo lunga assenza dello sposo, di propria iniziativa non sa far altro che recriminare e gemere: una schiava deve suggerirle il consiglio, abbastanza ovvio, di mandare il figlio, oramai grande, alla ricerca del padre; quando le risulta palese l’infedeltà d’Èrcole, non sa far di meglio che chieder consiglio al coro — che qui, per giunta, è composto di ragazze — che non sembrerebbero proprio le piú adatte a simile ufficio; e, sul punto di spedire la tunica, esita ancora e chiede consigli. Una donna qualunque, dicevo; e, talora, nella espressione dei sentimenti, donnetta. Questa Deianira è lontana, piú ancora che non sia veruna delle figure di Euripide, dalle animose viràgini di Eschilo.

Piena di grandezza tragica è invece la figura di Ercole; e i suoi discorsi sono certo da mettere accanto alle ispirazioni piú alte di tutto il teatro di Sofocle.

Ma debbo soggiungere che questo mio giudizio si allontana da quello di molti critici moderni.

Il Jebb osserva che questo Ercole è poco simpatico.