Pagina:Tragedie di Sofocle (Romagnoli) I.djvu/84

681-712 AIACE 57

Ché mai, dal giorno che l’offerse a me
Ettore, dei nemici il più feroce,
nulla di buono dagli Achei più m’ebbi:
è vero pur, l’adagio antico: doni
non sono i doni dei nemici11, ed utile
recar non sanno. E d’ora innanzi, dunque,
ceder sapremo ai Numi, apprenderemo
a rispettar gli Atridi: essi comandano,
e chinarsi bisogna. E come no?
Le forze più tremende, anch’esse cedono
al potere più grande. Il verno cede,
ricoperto di neve, alla pomifera
estate: l’orbe della notte oscuro
s’allontana, perché del giorno brillino
i candidi cavalli: il soffio placa
dei fieri venti il pelago che mugghia;
e il sonno onnipossente, e lega e scioglie,
né sempre stringe la sua preda. E noi
apprender non dovrem, dunque, a far senno?
Io sí; ché appresi or or che l’inimico
odiare convien, come se amarci
nuovamente potesse; e cosí voglio
con l’amico operar: giovargli come
se non dovesse amico essermi ognora:
ché malsicuro è d’amicizia il porto
per il più dei mortali. E tutto ciò
andrà pel meglio. E tu rientra, o donna,
e prega i Numi ch’abbia esito intero
ciò che brama il cuor mio. Compagni, e voi,
al pari di costei, le mie preghiere
esaudite; e a Teucro, allor che giunga,
significate che si prenda cura