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AIACE 9

alle dichiarazioni d’Aiace, e manifesta la sua soddisfazione in un iporchèma, una vivace e giocosa aria di ballo. Onde l’animo nostro è indotto anch’esso e quasi trascinato a sicurezza.

Ma poi sopraggiunge l’araldo, e le sue parole pongono di nuovo tutto quanto in forse, e ci immergono ancòra in gran trepidazione. E, quasi ad accrescere questo senso di angosciosa incertezza, il coro, con effetto, non propriamente nuovo, perché s’era visto già nelle Coèfore, ma certo estremamente raro nella drammaturgia antica, si allontana, e orchestra e scena rimangono vuote, e ci lasciano soli con la nostra perplessità angosciosa. La tensione d’animo degli spettatori, a questo punto dové essere massima. Tutti attendono, o l’urlo mortale dell’eroe, oppure l’araldo che giunga ad annunziarne la morte.

E invece, ecco l’eroe stesso, ancora in vita. Tutti traggono il respiro. Ma il sollievo momentaneo è ben presto distrutto dalle sue tristi parole, che, a poco a poco, ci fanno ripiombare nella piú fiera tragedia.

Abbiamo qui dunque, e adoperato con mano maestra, quel mezzo infallibile di avvincere l’interesse degli spettatori, che consiste nel lasciarli sospesi intorno all’esito degli eventi che si svolgono su la scena. Mezzo alienissimo dalla drammaturgia di Eschilo, nella quale gli episodi si allineano come la tradizione li suggerisce, e non contano che sul loro intrinseco pregio poetico.

Anche il contrasto, l’altro gran principio della drammaturgia sofoclèa, appare qui, non solo in perfetta funzione, ma, quasi direi, usato con l’eccesso del neofita. Nell’ultima parte, ne troviamo tre, uno dopo l’altro (Teucro-Menelao, Teucro-Agamennone, Agamennone-Ulisse).

Ed è interessante vedere, come, in concordia con lo spirito musicale che anima e crea le forme del dramma greco1,

  1. Vedi, in questa collezione, l’Eschilo, vol. I, pag. XV.