hai per vedere, gridar ciò? Non sai
che barbaro, di Frigia, anche fu Pèlope,
che padre fu del padre tuo? L’empissimo
Atrèo non sai, che poi te generò,
e del fratello i figli uccise, e in pasto
li offerse al padre loro? E tu medesimo,
nato non sei da una madre cretese,
che con un ganzo fu sorpresa, e ai muti
pesci gittata, da suo padre, in pasto?
E, tale essendo, ardisci la mia nascita
a me rimproverare? A me, che nato
da Telamóne sono, a cui l’esercito
i primi onori tributò, che sposa
ebbe mia madre, a cui Laomedonte
fu avo, che regina era di stirpe:
ed il figlio d’Alcmena a lui la diede,
eletto dono. E cosí, dunque, io, nobile,
da due nobili nato, i consanguinei
avere a scorno ora dovrei, che tu,
poi che in tanta sventura immersi giacciono,
insepolti respingi, e lo dichiari
senza vergogna? Or sappi bene ciò:
se tu costui gittar dove che sia
vorrai senza sepolcro, accanto a lui
gittar dovrete anche noi tre: ché bello
sarà per me soccombere pugnando
a viso aperto pel fratello, invece
che per la donna tua: meglio, per quella
dirò del tuo germano. Ora a te stesso
provvedi, e non a me: ché, se mi crucci,
dovrai pentirti, un dí d’essere stato
contro me temerario, e non codardo.
Giunge Ulisse.