andromaca
Va’ dunque. Ed io le lagrime, le nenie,
e le querele, fra cui sempre vivo,
all’etra innalzerò: ché nelle donne
retaggio è sempre aver sopra le labbra,
sopra la lingua, questo amaro gusto
del mal presente. E non sola una causa
di pianto, anzi n’ho molte: la città
patria, la morte d’Ettore, ed il Dèmone
mio duro, a cui, piombando in servitú,
avvinta fui. Felice alcun degli uomini
non dir, se tu l’ultimo dí non vegga
suo qual sarà, quand’ei laggiú discende.
Non una sposa addusse, quando Elena Paride addusse
nel suo talamo, in Ilio l'eccelsa, anzi una Furia.
Troia, fu sua mercè, se col ferro e col fuoco distrutta
t’ebber le mille e mille navi dell’Are ellèno,
se, spento, al cocchio avvinto, fu tratto d’intorno alle mura
Ettore, ahimè, lo sposo mio, dal figliuol di Tèti.
Anch’io strappata fui dal talamo, ai lidi del mare,
di servaggio odïoso cinte le bende al crine.
E molte lagrime al ciglio mi corsero, quando lasciai
la mia città, la casa, lo sposo nella polve.
Ahimè, misera me, perché vedo ancora la luce,
ancella d’Ermïóne? Da lei perseguitata
supplice, a questa imago della Dea tendendo le braccia,
mi struggo al par di goccia che da una rupe stilli.
Entra il coro formato di donne di Ftia.