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236 EURIPIDE


E, perseverando Ercole nel suo silenzio, il signore ricorreva a qualche minaccia. Ma sul figliuolo di Giove facevano poca presa.

ercole


Venga pure la spada, il fuoco venga,
ardi, le carni bruciami, rimpinzati
bevendo il negro sangue mio: ché prima
sprofonderanno entro la terra gli astri,
e s’alzerà nell’ètere la terra,
che il labbro io pieghi a motto adulatore.


Tuttavia, Sileo s’induce a comperarlo, e lo manda a lavorar la vigna. E mal glie ne incoglie. Ercole sbarbica le viti, ne fa un bel mucchio, e, col pretesto d’offrire un sacrificio a Giove, sgozza il bove piú pingue, e lo fa arrosto. E sfonda poi l’uscio di cantina, e adopera per tavola le imposte, e stappa il tino piú grosso, e mangia e beve e canta. Arriva Sileo; ma Ercole non si fa né in qua né in là: anzi lo sfida a chi trinca di piú.

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Siedi, e beviamo; e aver di me potrai
súbito un saggio, se di me piú vali.


Come nel mito finisse la storiella, è variamente narrato. Ercole, o sviava dall’alveo un fiume, e faceva sommergere ogni cosa; o accoppava Sileo e la figlia. Ma nel drammelto d’Euripide, la soluzione era meno tragica. Lo dimostrano due frammenti. Il primo ha l’aria d’una esortazione erotica: