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di me, del padre mio. Ma, stranïero,
poi che m’incíti a favellar, ti prego,
d’entrambi a Oreste annunzia i mali. E primo
di che vesti son cinta, e come sordido
è tutto quanto mi circonda, e in che
tugurio, io nata in una reggia, or vivo,
la spola usando, a tessermi da me
le vesti, se non voglio esserne priva
e andare ignuda; e da me stessa attingere
debbo l’acqua del fiume. E feste sacre
non ci sono per me piú, non piú danze.
E le donne schivar debbo, ché vergine
sono, e bandir di Càstore il ricordo,
del mio parente, a cui promessa fui,
pria che fra i Numi egli ascendesse. E in trono
la madre mia sopra le frigie spoglie
siede, ed al soglio suo vicine stanno
le schiave d’Asia che predò mio padre,
che manti idèi con fibbie d’oro stringono.
E nella reggia, di mio padre il negro
sangue marcisce ancora; e chi l’uccise
sale sul carro ove salí mio padre,
lo scettro stringe ond’ei guidava gli Èlleni,
nelle mani omicide, e va superbo.
E senza onor la tomba d’Agamènnone
mai libagione non riceve, mai
ramoscello di mirto; e la sua pira
d’ogni ornamento è priva. Ed il consorte
di mia madre, l’illustre, come dicono,
l’affogato di vino, la calpesta,
e pietre avventa sul marmoreo tumulo,
e contro noi cosí parlare ardisce:
«Oreste, il figlio tuo, dov’è? Davvero