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ORESTE 267

cromatico, appaiono distinte da quelle dell’enarmonico mediante una sbarretta che le attraversa. Ma sembra certo che questa distinzione sia stata introdotta assai tardi, sotto l’impero romano (Alipio visse, probabilmente, ai tempi di Giuliano). I Greci seguirono, invece, una via piú semplice e spiccia: adottarono i medesimi segni tanto pel cromatico quanto per l’enarmonico; e al principio di ciascun pezzo indicarono (probabilmente mediante un segno, che non conosciamo piú), se il brano era cromatico o enarmonico; e l’esecutore accordava la cetra in conseguenza.

Cosí, dunque, non possiamo attribuir troppo valore al fatto che nel brano dell’Oreste le note non appaiono tagliate da alcuna sbarretta.

Il Gevaert, con la sua grande e ben meritata autorità, escluse senz’altro la possibilità dell’enarmonia. Il brano era corale. Ora, come supporre che dei coreuti, e fossero pure professionali, intonassero intervalli di quarti di tono, che, insomma, per testimonianza quasi concorde degli scrittori antichi, riuscivano anche allora di ben ardua esecuzione? Cosí egli adottò senz’altro la trascrizione cromatica1; e il suo esempio fu seguito, su per giú, da quanti si occuparono del frammento, a cominciare dallo Jan, che nella sua nuova edizione dei frammenti della musica greca (1899), abbandonò l’interpretazione enarmonica accolta in quella del 1895 (però all’enarmonico è tornato il Reinach nella sua recente operetta sulla musica greca)2.

L’osservazione del Gevaert fa certo grande impressione a noi moderni, incapaci, per desuetudine secolare, di apprezzare i quarti di tono (per altro, è sintomatica l’universale tendenza a riaccoglierli).

  1. La mélopée antique dans le chant de l’église latine. Gand 1895, pag. 388.
  2. La musique grecque, Payot, Paris. 1926.