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getto del dramma. E se lo sviluppo non corrisponde perfettamente a questo lor duplice concetto, condannano. Ma pensate che ampia e libera concezione dell’unità si palesi in tutti i drammi greci, e massime in quelli d’Euripide: ponete che soggetto del dramma siano, come sono, le ultime vicende di Neottolemo; e vedrete che l’unità, in certo senso indispensabile in ogni opera d’arte, scacciata dalla porta, rientra dalla finestra.

Si può piuttosto osservare che questa libera giustaposizione di tre motivi che avrebbero potuto offrire ciascuno argomento a un dramma, costituisce ricchezza di materia, ma non d’intreccio. E che per questa parte l’Andromaca non merita molte lodi, neanche di fronte al nuovo modulo drammatico che qui certo si proponeva il poeta.

Quanto poi alla politica, verissimo che essa ha continuamente ispirato Euripide: verissimo che lo ha indotto ad alterare, di fronte alla tradizione, questo o quel carattere. Ma questo fatto, di per sé solo, non ha molta importanza. Ne avrebbe se avesse avuto il risultato di fargli creare personaggi senza rilievo e senza vita. Ma questo non è, lo abbiamo veduto. E allora? — L’invettiva di Andromaca è rivolta piú contro gli Spartani contemporanei di Euripide che non contro Ermione. E che vuol dire? Quando questa invettiva raggiunge a tratti una eloquenza dantesca, essa convince e commuove; e solo un pedante potrà pensare a porre un freno alla propria commozione perché scopre una presunta impurità nella fonte d’ispirazione.

Dice il Patin, concludendo il suo capitolo sull’Andromaca: «Se i ricordi nazionali, i tratti di località e di circostanze di cui abbonda questa tragedia non producono su noi alcun effetto, se parecchi dei personaggi ci riescono repellenti per l’espressione troppo caricata o troppo fedele della loro barbarie, che cosa, dunque, rimane in essa, che possa attrarci?»

Rimane, mi pare, tutto ciò che mi sono studiato di far