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animi che devono affrontarli. Questi spiegano quelli; e reciprocamente. In Euripide, invece, l’equilibrio è rotto. Quelle psicologie sono impari a quegli eventi. Anime non tragiche fra tragicissime vicende. Disagio, disequilibrio, e, in conclusione, difetto estetico.

Del resto, qualche luce di pura tragicità non poteva mancare in un dramma tragico, e del poeta, per giunta, che fu dagli antichi salutato «tragicissimo». E la troviamo, infatti, e assai rifulgente, alla fine del riconoscimento tra i due fratelli. Oreste, Elettra e il vecchio servo invocano Giove, Era, e il padre defunto, perché dal cielo e di sotterra soccorrano alla loro battaglia. Questo terzetto è veramente di altissima efficacia, e sposa l’impeto lirico a una gran tragicità. Ma, ahimè, non è se non l’eco, e, tutto sommato, un po’ languida, della prodigiosa implorazione de Le Coefore. Poche battute prima Euripide aveva scorbacchiato Eschilo. Ora il Titano d’Eleusi s’insinua nell’opera del suo critico, e conia del suo spirito immenso l’unica scena che in questo dramma sembri veramente ispirata dal Diòniso tragico. Allegra vendetta del genio.

S’intende poi che, se, con uno sforzo d’astrazione, riusciamo a strappar questi personaggi dalla compagine drammatica, e a considerarli in sé, riescono forse piú interessanti dei personaggi puramente tragici; tanto, quanto sono piú vicini alla comune verità, alla media degli spiriti.

Perché, se il sovrumano ci può sorprendere e colpire di piú, l’umano, puramente umano, e, se si vuole, meschinamente umano, riesce a cattivare piú a lungo la nostra atten-