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ELETTRA 5


Ma ben altra è l’Elettra d’Euripide. Non solo si rassegna alle nozze con un bifolco (l’Elettra di Eschilo o di Sofocle avrebbe prima affrontate cento morti); ma, riconoscente per il rispetto che le dimostra il brav’uomo, finisce, insomma, per adattarsi alla sua misera sorte, e sobbarcarsi alle faccende domestiche. È suo dovere, dice ad Auturgo che tenta distoglierla:

per quanto posso, alleggerir ti devo
dalle fatiche, sí che men ti pesino,
partecipare i tuoi travagli. Assai
tu lavori pei campi: spetta a me
la cura della casa: a chi lavora,
piace, tornando, trovar tutto in ordine.

Saggissime riflessioni, da brava donna; ma non da eroina. E questa Elettra non sembra parente, neppure alla lontana, di quelle di Eschilo e di Sofocle. La novità è raggiunta.

Ma sulle labbra di una tale fanciulla sembrano poi stonate le atroci affermazioni: — l’eccidio di mia madre io compierò — ch’io sgozzi, sveni mia madre; e poi muoia. — E poco convincono i suoi feroci insistenti incitamenti ad Oreste.

Ad ogni modo, le parole son parole. Ma come reggerà poi all’urto dei fatti?

Non regge, infatti. Appena compiuto il delitto, la assale il pentimento. E chiama lagrimevoli gli eventi, e rivolge a sé stessa l’accusa di avere istigato Oreste, e si rammarica che nessuno l’accoglierà piú fra le danze, nessuno vorrà piú sposarla. Il mutamento è tale, che il coro lo sottolinea.

Di nuovo, ecco, il tuo spirito
muta: col vento va.
Pia ti dimostri adesso;
ma pia non fosti: il tuo fratel perplesso
era, e la tua parola indotto l’ha.