l’opra, alla luce il mio peplo ammirando,
altre, la tracia lancia esaminando,
privo mi fêr della difesa duplice.
E quante aveano figli, i due fanciulli
fra le braccia prendean, sí che lontani
rimanesser dal padre; e li passavano
da mano a mano. E poscia, dai propositi
soavi creder lo potresti? a un tratto,
spade impugnando sotto i pepli ascose,
mi trafiggono i figli: altre s’avvinghiano
a me, simili a polpi, e mi trattengono
e piedi e mani. Io, correre al soccorso
volea dei figli; ma se alzavo il volto,
mi tratteneano pei capelli; se
agitavo le mani, oh me tapino!,
nulla potevo: tante eran le femmine.
E infine, male d’ogni mal peggiore,
compiono quest’orror: prese le fibule,
degli occhi miei le misere pupille
insanguinano, forano; e si sbandano
poi per la tenda, qua e là fuggiasche.
In piedi io balzo allora, e a fiera simile
sulle cagne omicide mi precipito,
a mo’ di cacciatore, ogni parete
frugando, rovesciando, fracassando.
Questi mali, Agamènnone, ho patiti,
per far cosa a te grata, per uccidere
un tuo nemico. Ma non vo’ piú fare
lunghe parole. Se qualcun già disse
o dice ora, o dirà mal delle femmine,
io tutto quanto il mal cosí compendio:
né mar né terra nutre una piú perfida
razza; e lo sa chi mai con lor s’acconta.