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notte piena; ma no: all’orizzonte è già sorta la luna: una falce, perché anche le scene che seguono si svolgono nel buio; e le scolte, use a guardare il cielo, sanno che in questi giorni quando essa spunta l’alba è vicina1.

Ed ecco altri indizi. Un lamento d’usignolo su le rive del Simoenta: la nenia d’un sufolo: un soave sopore che pesa su le palpebre. Si legga per intero il brano, e si vedrà con che arte sottile è resa la singolar sensazione che invade l’anima quando, nel cielo ancor tutto tenebroso, e fulgendo tutte ancora le stelle, trepida improvviso e quasi senza visibile indizio il primissimo presentimento dell’alba. E come è la cosa piú bella del dramma, cosí va annoverato fra le gemme della poesia greca.

Ed è ancor notte fonda. Giungono Ulisse e Diomede, e muovono a tentoni.

ulisse
Ve’, che tra il buio non t’imbatta in guardie.
diomede
Ci baderò, sebben fra il buio inoltro.


E odono, senza poterne scoprir súbito la provenienza, stridore di ferree catene: particolare che accresce ancora l’orrore del buio.

  1. Mi scosto dalla maniera comune d’intendere. Οὐ λεύσσετε μηνάδος αἴγλαν; dice il testo. E s’intende in genere: non vedete farsi piú languido il raggio della luna? Ma intendere αἴγλα per «pallore» è un po’ sforzato; e poi questa interpretazione lascerebbe supporre che la luna avesse brillato su tutte le scene precedenti: che sembra da escludere. Conseguentemente, intendo che l’ἀστήρ del verso 537 significhi ancora la luna, e non già, come s’intende abitualmente, la stella di Venere.