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IFIGENIA IN AULIDE 91

tuita, lo abbiamo visto, la figura d’Ifigenia dal suo primo apparire sino al suo repentino, logicissimo passaggio all'eroismo. Ma assai meno convincente il ragionamento con cui essa giustifica e spiega questo passaggio. Essa ripete e sviluppa i ragionamenti di Agamennone, che, se ci repugnavano dalle labbra del padre, da quelle della figlia non riescono a persuaderci. E aggiunge di proprio due ragioni che ci piacciono anche meno. Prima, non è giusto che essa, mortale, si opponga alla volontà d’Artemide (quanto piú convincente lo scetticismo di Clitemnestra!); seconda, la vita d’una donna conta ben poco: «piú di mille e mille donne — val che un uom schivi la morte».

Fa stizza. Ma gli è che qui il poeta non segue piú docilmente la creatura che, nata direttamente dalla sua intuizione, ripete dalla legittima nascita un’autonomia non minore di quella d’una creatura reale. Qui sul poeta influiscono altre forze estranee, e nocive all’arte. Influiscono principii che gli sta a cuore d’affermare, per ragioni che qui non giova indagare. Influisce, soprattutto, la tendenza, e forse il bisogno, di accarezzare la sensibilità patriottica degli spettatori.

Perché qui, naturalmente, bisogna leggere fra le righe. Quando Ifigenia parla di Frigi, tutti intendono «Persiani»; quando parla di Ellade, tutti intendono «Atene». Perché Atene si attribuiva, e a buon diritto, la parte principale nella vittoriosa guerra contro i Persiani.

E cosí riesce di fatto alterata una figura che d’altronde possiede tanto fulgore artistico da nascondere qualsiasi ombra.

Richiamandoci a quanto già osservammo, nelle prefazioni generali, intorno alle necessità scenografiche dei Greci, osserviamo che in pochi drammi, eccettuato l’Agamennone, la