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IFIGENIA IN AULIDE 87


Certo che li sdegnerebbe. Salvo che la Melpomene gallica è stata, un po’ sempre, una eterna candidata all’Accademia di Francia. E questo tono continuamente rilassato dell’Ifigenia (inutile indugiare in altri esempii), allontana, sí, il dramma dallo stellato empireo delle nove sorelle, ma lo avvicina alla divina verità. Ed è inutile starci a sofisticar troppo. È una vicinanza dalla quale tutte le opere d’arte, passate, presenti, e, giuratelo pure, future, si troveranno sempre corroborate e rinfrancate. Euripide ci ha voluto dire, ripetere, ribattere, che quel re, quella regina, quella reginetta sono, in fondo, uomini e donne uguali a tutti gli altri. Ha esagerato, magari. Ma tanto piú sicuramente ha trovato le vie del nostro cuore.

E allo stesso amore di verità si deve forse la caratteristica forma del finale.

Nei drammi greci, per solito, l’araldo giunge ad esporre il momento supremo e piú atroce della tragedia, che non viene mai direttamente rappresentato. Però, il dramma non finisce qui. Dopo questo culmine, seguono altre scene che ne espongono le ultime conseguenze, o ne fanno il commento: compiendosi in questo indugio una mitigazione dell’orrore che ha invaso l’animo degli spettatori: se vogliamo, una catarsi.

Qui invece, al racconto dell’araldo seguono quattro versi di Clitemnestra, sei di Agamennone, due del coro, e la tragedia finisce.

E con questa chiusa del suo ultimo lavoro il poeta sembra affermi il principio, divenuto poi canonico, che dopo il momento culminante del dramma, non c’è piú posto per altre scene, sebbene la tradizione le consigliasse e quasi le imponesse. Perché qualsiasi catarsi non poteva oramai che smorzare l'effetto, al quale Euripide, uomo di teatro, teneva molto.