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di Euripide il linguaggio discende di tono in guisa da far pensare alla famosa espressione d’Orazio: nisi quod pede certo differt sermoni sermo merus: commedia ben piú che tragedia. Eppure, a badare alla sostanza, in nessun dramma, forse, il tono del linguaggio è cosí costantemente dimesso come nella Ifigenia in Aulide.

Superfluo parlar della scena, che sostanzialmente apre l'azione, fra Menelao ed il servo. A questo Menelao i critici francesi sbarravano a due battenti il regno di Melpomene. E dal loro punto di vista neanche avevano torto: della «dignità tragica», tanto cara ai compatrioti di Racine e di Boileau, qui neppur l’ombra. Né il tono sale nella contesa col fratello Agamennone. «Perché t’intrighi dei fatti miei?» — «Perché cosí m’accomoda» — «In casa mia, non sarò padrone di far ciò che voglio?» — . Anche i re son uomini, d’accordo, ma qui, davvero, sono troppo uomini. E lo stesso spirito anima la requisitoria di Menelao, né il tono muta quando dalle maniere brusche si passa alle conciliative. «Non la prenderò dall'alto — dice Agamennone — parlerò senza boria, da fratello a fratello. — Una persona distinta deve mantenere il suo decoro. — I Numi, t’hanno liberato da una donnaccia, e tu, invece di ringraziarli, te la vuoi riprendere? Sei da annoverare tra i pazzi». Concetti triti, e, come ora si direbbe, borghesi, come piú non si saprebbe immaginare.

E cosí si va avanti sino all’arrivo di Clitemnestra. La regina affida alle ancelle i doni nuziali, e raccomanda che non li sciupino. Ed essa e le donne del coro insistono sul particolare dell'aiuto che si deve dare alle donne per farle discendere dal carro. E poi viene il particolare del bambinello Oreste, che s’è addormentato per il tran tran del veicolo. Particolare graziosissimo, quest’ultimo, e graziosi anche tutti gli altri. Però, da mimo e non da tragedia. «Indugia — dice il Patin — in particolari borghesi cui si sdegnerebbe la nostra Melpomene».