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cade ai ginocchi del padre, e dal suo labbro sgorgano le piú commoventi parole che mai il terrore abbia strappato a creatura umana. Assai discorsi commoventi si possono trovare nel teatro d’Euripide, ma questo li supera tutti, e supera quanto c'è di simile nel teatro greco e in ogni teatro: basterebbe da solo a far dell’Ifigenia un capolavoro, basterebbe da solo alla gloria d’Euripide.

Ma Agamennone risponde con fredde parole. Sembra che la tetra calma dei venti e del mare abbia con malefico sortilegio paralizzato il suo cuore di padre.

E questa Ifigenia d’Euripide non è la creatura puramente istintiva d’Eschilo. Ha una mente lucida, sceveratrice. E poiché Agamènnone le favella il freddo linguaggio della ragione, le cade dagli occhi ogni benda; e in lui non vede piú il padre, che si adora e non si discute; bensí l’uomo, che si giudica. Essa vede ben chiaro. Nulla vale il pretesto di Agamennone, che, se rifiutasse d’immolare la figlia, gli Achei invaderebbero il suo regno, porrebbero a sacco la reggia, e ucciderebbero i suoi figli, e, dunque, anche, Ifigenia. Frigida logica e specioso pretesto a mascherare una turpe codardia. Perché né lontane minacce né pericoli imminenti debbono stornare un padre dal suo sacrosanto dovere. Per la sua diletta figlia il suo sangue dev’essere versato sino all’ultima stilla, senza numerare nemici, senza badare a pericoli, senza discutere un istante. Agamennone non lo fa, ed è un traditore. Traditore ed empio lo chiama la figlia, che un istante prima lo vezzeggiava con le piú tenere parole.

E un nuovo fatto giunge a turbare il suo spirito. Arriva Achille. Nel suo cuore di fanciulla essa prevedeva certo un turbamento, quando si sarebbe trovata innanzi allo sposo, il piú prode di tutti gli Achei. Turbamento grande, eppure soave. E invece adesso! Tutto non fu che un giuoco, uno scherno di morte. E vorrebbe allontanarsi. Ma la madre la induce a