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Ed eccoci giunti a quasi contrapporre la tragicità alla umanità.

E in certo modo, è cosí. La tragicità è infatti qualche cosa tra il ferino e il divino, che ci colpisce e ci stordisce piú che non ci commuova. E, innanzi tutto, bisogna guardarsi molto bene dall’identificarla, come fanno molti critici accademici, e, massime, i francesi, con l’eroismo, o, addirittura e peggio, con la solennità decorosa.

Pigliamo un esempio concreto, la pittura già ricordata di Ifigenia nell’Agamennone:

Gli appelli al padre e le preghiere, nulla
mossero i prenci, né l’età virginea.
Ordine il padre die’ che la fanciulla
su l’altare i ministri a mo’ di capra,
dopo la prece, arditamente levino,
prona, nei pepli avvinta. E a ché non s’apra
la bocca bella, e l’improperio scagli
contro i suoi lari, con la muta furia
la frenin dei bavagli.
Al suolo essa le crocee
vesti gittò: dal guardo
su ciascuno di quei che l’immolavano
vibrò, di pianto evocatore, un dardo,
bella come dipinta immagine, ansia
di parlar.

D’eroico, non c’è proprio nulla. È una povera e debole fanciulla, che sino all’ultimo lotta e si dibatte per non morire, e infine, resa muta dal bavaglio, ancora implora con gli occhi.