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Da una didascalia di Aristotele, e da una annotazione antica a Le Rane di Aristofane, apprendiamo che l’Ifigenia in Aulide fu messa in scena dopo la morte d’Euripide, dal suo figliuolo. Naturalmente, questa circostanza ha provocato i sospetti e l’operosità dei critici e tutte le singolarità e le stranezze, reali o presunte, della tragedia, furono dichiarate interpolazioni, condannate ed espunte. Io credo che possiamo attenerci alle conclusioni di Enrico Weil, che qui, come in quasi ogni altro punto della letteratura greca, fa davvero testo, perché alla dottrina filologica, vastissima e profonda, congiunge un fine gusto letterario, e, ciò che importa anche di piú, una gran dose di buon senso. «Pur facendo le nostre riserve — dice il Weil — per le interpolazioni, le lacune, le alterazioni di ogni specie, dalle quali nessuna opera d’Euripide va interamente immune, io credo che noi leggiamo oggi questo dramma quale lo lessero Aristotele, Ennio, insomma tutti gli antichi»1. Facciamo nostre le parole dell’insigne filologo, e con tale spirito procediamo all’analisi della tragedia.

  1. Sept tragédies d’Euripide (1879), p. 314.