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276 EURIPIDE

non dirò, di mia madre, errai fuggiasco,
dall’Erinni incalzato, insin che il piede
mio sospinse ad Atene il Nume obliquo,
dove alle Dee cui nominar si vieta27,
sottoponessi il mio giudizio. È qui
un tribunale santo — un dí per Marte
Giove lo istituí, per una colpa
di sangue. Or, come lí giunsi, nessuno
degli ospiti da pria volle ricevere
me, dai Numi odïato. Alcuni poi,
mossi a pietà di me, sotto il lor tetto
m’accolsero; però fecero ch’io
solo sedessi a mensa, e che nessuno
mi favellasse, e che bevanda e cibo
da lor divisi avessi. E nel medesimo
calice a tutti ugual misura infusa
di vino, si godeano. E infligger biasimo
io non potevo agli ospiti. Fingevo
di non vedere, e pativo in silenzio,
l’assassinio di mia madre piangendo
amaramente. E a ricordar le mie
pene, gli Ateniesi istituirono,
a quanto odo, una festa. Ed il costume
è vivo ancor fra il popolo di Pàllade,
che onorino i Boccali. Or, come d’Are
fui giunto al colle, ebbe luogo il giudizio.
Sovra un seggio io sedei, la piú vetusta
dell’Erinni su l’altro: udii l’accusa
di matricidio, e mi difesi. E Febo
testimonianza rese, e mi salvò.
Di sua mano contò Pàllade i voti:
furono uguali; ed io partii prosciolto
del reato di sangue. Or, delle Erinni